« . . . PER L’OBBLIGO CHE AI PASSATI SI HA . . . »

 

Marco Cavalli

(Luigi da Porto. Lettere storiche 1509–1513. Un’edizione critica. A cura di Cecil H. Clough e Giovanni Pellizzari. Vicenza: Angelo Colla editore, 2014. 635 pagine. € 65.)

Merita una vetrina luminosa e panoramica l’edizione delle Lettere storiche di Luigi da Porto (1485–1529) che Angelo Colla Editore ha pubblicato nel 2014 coronando il sessantennio di ricerche testarde e appassionate condotte dal curatore dell’opera, lo studioso inglese Cecil H. Clough.

Il volume si compone di almeno quattro libri tra loro complementari: 1) il profilo biografico di Luigi da Porto in quanto autore delle Lettere storiche e protagonista attivo di alcuni episodi in esse narrati; 2) la storia della guerra della Lega di Cambrai (1509–1517) quale la si ricava dall’esposizione parziale e partigiana del da Porto; 3) il romanzo della ricostruzione filologica delle Lettere storiche, a firma di Cecil Clough; 4) la cronistoria dell’edizione critica riferita nei particolari dal curatore italiano del volume, Giovanni Pellizzari, le cui sapienti postille integrano e talvolta rettificano le osservazioni di Clough più arrischiate e tendenziose arricchendo gli apparati critici di un contraltare ironico.

Di questi quattro libri che si compenetrano l’un l’altro, il più intrigante è un quinto, formato dalle rispondenze tra la personalità di Luigi da Porto, capitano dei cavalleggeri al soldo della Serenissima, e quella del suo interprete moderno, ex pilota della RAF votatosi agli studi umanistici. Entrambi sono uomini che amano tornare indietro nel tempo. Lo fanno per scrutare il passato e, almeno in un caso, per diventarne parte; ma lo fanno anche per trovare il loro posto nel futuro.

Da Porto inizia a scrivere la storia della guerra tra Venezia e la Lega nel 1522, dopo esservi stato estromesso in seguito a una ferita rimediata in combattimento nel 1515. Sostenuto dall’amicizia e dal magistero intellettuale del cardinale Pietro Bembo, da Porto si comporta da vero aristocratico dedito agli ozi letterari. Le sue Lettere sono un resoconto storico e un’opera autoapologetica in cui la statura degli eventi innalza il loro cronista e però anche viceversa.

Quanto a Clough, l’ambizione di riscattare il da Porto da un oblio storiografico immeritato diventa, col passare degli anni e l’infoltirsi del lavoro, una difesa a oltranza dell’integrità magmatica di quel lavoro. Gli editori e i mecenati che si fanno avanti sono costretti a ripiegare, impressionati dalla mole formidabile del dossier da Porto e dall’intransigenza con cui il suo curatore ne preserva i contenuti. Restio ad accettare valutazioni diverse dalla sua, Clough esalta la centralità di ogni singola tappa del processo di ricostruzione storica.

L’organicità del lavoro di Clough si riflette nella struttura concatenata delle frasi del da Porto, caratteristica dell’umanesimo letterario del XVI secolo:

L’ingratitudine veramente fra tutti gl’altri vizi degl’uomini, che infiniti sono, è grandissimo; la cui villania tanto deva essere biasimata, quanto che sia da lodare il gentilissimo suo contrario; laonde ciascun uomo, al quale nei suoi giorni gran fatti di guerra venga veduto, nei quali, e l’animosità e la prudenza e l’ingegno s’adopra, mi pare che sia per il servizio dai passati ricevuto, molto obbligato di lasciarne ai posteri memoria, i quali passati le gran cose con tanta virtù dagli antichi operate, che altramente a noi sarebbono state nascoste, ci han col loro scrivere quasi sotto un bel cristallo lasciate dipinte, le quali mirando, e considerando, e più arditi e più saggi, e per loro esempio più alle virtù inclinati possiamo divenire. Io dunque per non restare di questa bruttura macchiato, ho voluto raccorre alcune lettere da me in spazio di alquanti anni, nella nostra comune lingua, e agl’amici d’intorno al fatto delle guerre del mio tempo, e del mio paese scritte; e per l’obbligo che ai passati si ha, del vano e del troppo quanto per me s’è potuto avendole scemate, lasciarle ai futuri.

Questo è il proemio al libro I delle Lettere storiche. In passato, alcuni studenti della SSML di Vicenza vi si sono rotti le unghie nel tentativo di tradurlo in italiano corrente. L’ostacolo principale è costituito dalla regola dell’imitazione verso l’alto. Tutto nella prosa del da Porto è il risultato di un’adesione a modelli classici o recepiti come tali. L’esortazione a lasciare memoria di sé sull’esempio degli autori antichi è un luogo comune della memorialistica cinquecentesca. Il modo in cui viene affrontato nelle Lettere storiche non ha niente di originale. Dalla prima frase all’ultima, il racconto è scandito con una dizione eroica che non teme né il ridicolo né la stanchezza. È un alone di luce imperterrita, accecante per eccesso di uniformità più che di voltaggio. Nella letteratura italiana la magniloquenza costituiva la regola di svolgimento raccomandata e quasi intimata praticamente per ogni tema. In amore, per esempio, era d’obbligo petrarcheggiare. Lo prescriveva proprio in quegli anni Pietro Bembo, non a caso consulente letterario del da Porto. Quest’ultimo doveva trovare naturale attenersi all’imperativo estetico di allora, espressione di un’ideologia conservatrice. Impossibile per lui ricercare un effetto drammatico servendosi di ombreggiature comiche e di chiaroscuri grotteschi, come fanno Ruzante e Grimmelshausen. La solennità funziona anche come misura di sicurezza: «le gran cose dagli antichi operate» vanno custodite «sotto un bel cristallo» non solo perché è doveroso «lasciarle ai futuri», ma affinché si tramandi, assieme al contenuto, il contenitore.

Insomma, anche se non è facile stabilire chi tra il da Porto e Clough sia il salvatore e chi il salvato, il loro connubio appare riuscito, felicemente romanzesco.

Ecco allora una tipica «cronaca italiana» vissuta e narrata da un personaggio altrettanto tipico dell’Italia non solo rinascimentale. Luigi da Porto appartiene a una famiglia patrizia molto ricca e molto ben collocata nel vicentino, in rapporti con le più prestigiose e potenti dinastie veneziane e locali: i Trissino, i Nievo eccetera.

Per i da Porto quella della Lega di Cambrai (sodalizio militare voluto da papa Giulio II per frenare l’espansionismo della Repubblica di Venezia, con adesioni da parte di mezza Europa) è soprattutto una guerra d’interesse, legata alla salvaguardia dei privilegi feudali e delle proprietà di famiglia. Inizialmente filo-imperiali per insofferenza verso i veneziani e la loro ingerenza negli affari d’entroterra, verso la fine del 1509 i da Porto stringono con la repubblica di San Marco un’alleanza di opportunità. Luigi combatte a fianco dei veneziani senza mai nascondere l’antipatia che gli ispirano. Tra protezionismi, diserzioni, sodalizi frettolosi e sospetti, la guerra della lega di Cambrai, così come ce la presenta il da Porto, si snoda con un andamento da controversia municipale più che da conflitto su scala europea. Osserva Clough che durante la guerra, «a causa della sua posizione strategica e della sua intrinseca debolezza difensiva, Vicenza cambiò di mano qualcosa come ventiquattro volte in otto anni», provocando un ingorgo di confische, saccheggi e rivendicazioni feudali che avrebbe del comico, se fosse possibile circoscriverlo con sicurezza a quell’epoca.

Tra i pregi del volume c’è un risvolto di copertina brillante che crediamo di pugno di Giovanni Pellizzari. Vale la pena riportarlo almeno in parte:

Nelle Lettere del da Porto si alternano e si fondono momenti di felice vitalità e drammi sanguinosi: le scaramucce fra cavalieri d’eccezione sotto gli occhi degli alti comandi veneziani, come in un teatro verde, a due passi da Verona; lo spettacolo, in Friuli, di un commilitone ungherese la cui calma e folle audacia strappa un applauso a Luigi, d’un tratto trasportato nel mondo fiabesco e stralunato delle chansons de geste e dei romanzi cavallereschi spagnoli; le imprese della maestrevole e sinistra cavalleria leggera albanese al servizio di Venezia; l’orrore ipnotico delle esecuzioni capitali con i loro rituali di degradazione; l’imboscata al chiaro di luna fatta, si direbbe, come una serenata alla sua donna, col buio finale che precede l’alba, e il ricordo dell’inno a Venere di Lucrezio [. . .] E poi, il buio improvviso della paralisi per una ferita alla gola rimediata da Luigi in uno scontro sul fronte friulano, la solitudine nella sua campagna di Montorso, o nel palazzo di Vicenza, e il sentimento del tempo, che gli fa riordinare, con le carte, il passato. Una vera recherche, che gli riporta davanti agli occhi i volti e le parole dei tanti compagni morti: a partire da quel suo zio, Antonio Savorgnan, figura paterna che poi tradì Venezia e finì tragicamente. Lettere dunque reinventate dopo vent’anni, e riscritte nello stile mutuato dal Bembo, il suo caro, più illustre e mondanissimo amico. Come dire: coscienza, kunstwollen di divenire un classico, scrittura «per i futuri»: per noi.